Chiesa Parrocchiale San Pietro Martire

La chiesa di San Pietro Martire

La chiesa sorge nell’area in cui, intorno al secolo XIII, risiedevano gli eremiti Agostiniani. Accanto vi era un ospedale, gestito dagli stessi religiosi, che poi preferirono rientrare entro le mura cittadine lasciando il monastero vuoto.

Verso il 1220 San Domenico, di passaggio a Jesi, lasciò qui alcuni suoi religiosi che si stabilirono nel vuoto convento. Nel 1240 si verificò la vicenda di San Pietro Martire, religioso domenicano, il quale fu ingiustamente accusato e incarcerato nel luogo ora trasformato in cappella lungo la via omonima, ove gli parlò il Crocifisso confortandolo. Il santo, lamentandosi con il Signore per l’ingiusta condanna, si sentì dire dal Crocifisso: “Ed io, Pietro, che male ho fatto?”. È questo l’episodio rappresentato nella pala dell’altar maggiore, opera di Francesco Szdoldatics del 1886. Quando il Santo morì da martire, venne venerato a Jesi e al suo nome venne dedicato l’ospedale attiguo al convento domenicano, oltre la prima chiesa intitolata a San Domenico.

Nei primi decenni del XV secolo anche i domenicani si trasferirono all’interno della città, ma la vecchia chiesa ormai intitolata a San Pietro Martire non venne meno e, con l’ospedale, fu affidata alla Confraternita intitolata al Santo. Nel 1700 la chiesa ormai cadente, venne ricostruita poco distante sempre ad opera dei domenicani. L’edificio sacro fu demolito probabilmente all’inizio del XIX secolo.

Quell’area  fu donata dal marchese Raffaele Mereghi per la costruzione della chiesa e del convento per i frati Cappuccini, già presenti a Jesi dal ‘500, ma allora sprovvisti di una struttura adatta. L’attuale chiesa fu costruita su disegno di Ciriaco Santini, dal 1884 al 1886, con ampio contributo del vescovo Rambaldo Magagnini, dei conti Balleani e di altri benefattori. 

La consacrazione della chiesa avvenne il 29 settembre 1886 dal vescovo Magagnini. Il convento, che fu seminario dal 1921 al 1968, ospitò per 54 anni il servo di Dio fra Serafino da Pietrarubbia (1875-1960), le cui spoglie sono conservate in una cappellina della chiesa.

Nel 1972 furono eseguite alcune opere di ristrutturazione, secondo il progetto dell’ingegnere Giuseppe Lenti di Jesi: il coro è stato ristretto come conseguenza dell’arretramento dell’altare e ai lati del presbiterio sono stati invece aperti due spazi.

L’11 novembre 1979 la chiesa è diventata parrocchia. Nel 2020 i frati Cappuccini hanno lasciato il convento jesino lasciando in mano la parrocchia al clero diocesano.

L’esterno è estremamente sobrio e si distingue per il nartece a cinque fornici, posto su di una scalinata e coperto da un tetto a falda. Emerge centralmente il corpo della chiesa con una semplice finestra al posto del rosone e un timpano triangolare a coronamento della facciata. La struttura è in muratura. L’interno è caratterizzato da un apparato decorativo che richiama lo stile eclettico ottocentesco, per la sua derivazione dal Quattrocento. La pianta si sviluppa su un’unica navata centrale collegata alle cappelle laterali da vari passaggi. 

All’interno, nel presbiterio, si nota il complesso ligneo dell’altare maggiore proveniente dalla precedente chiesa dei cappuccini sita nell’attuale “Isolato Carducci”. Sopra l’altare, decorato con un paliotto su tavola con disegni a pirografia, spicca il tabernacolo ligneo del 1724. Questo ciborio, che si distacca nella struttura da quelli dei cappuccini delle Marche, presenta elaborate tarsie che creano profondità prospettiche, con archi e colonne e con pavimenti cosmateschi. Sopra la pala d’altare dello Szdoldatics, nella sommità dell’ornato ligneo vi è una SS. Trinità, olio su tavola, di Augusto Mussini. Il pittore, che ha composto l’opera tra il 1909 e il 1910 nel convento dei cappuccini di Ancona, ha rinnovato lo schema tradizionale relativo alla difficile figurazione del mistero trinitario, immettendovi una nota realistica, anzitutto nel Figlio, che nella sua nobilissima struttura virile vuol mettere in risalto la sua natura umana assunta nell’Incarnazione; poi nel Padre, che nel suo gesto amorevole e avvolgente vuol significare la divina paternità; e, infine, nella colomba dello Spirito Santo librata sul Verbo incarnato come sulle acque del Giordano, nel battesimo di Cristo. La notazione realistica non spegne l’alone di mistero che promana dalla colorazione opaca e quasi sanguigna dalla quale emergono le divine Persone. Dello stesso autore è il Crocifisso, dipinto a olio su muro nel 1910, sopra la porta d’ingresso e quindi poco visibile ma non meno interessante in quanto documento di rara importanza in ambito d’arte sacra di quel tempo. Suggestivo per il colore e l’espressività, l’opera rispecchia la drammatica situazione esistenziale del Mussini.

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